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Arrigo Gallizio – Se ne va un altro grande della vecchia guardia

Non è mai stato celebre tra i profani, raramente il suo nome veniva fuori parlando di auto come la Stratos o la Countach, ma io ho avuto il piacere di incontrarlo.

Torino, ovviamente, in uno dei bar più eleganti e signorili della vecchia capitale: il “Caffè Torino”, fondato nel 1903.

Gallizio, ex collaboratore ai piani di forma in Bertone, è adeguato al posto in cui ci ha dato appuntamento, Piazza San Carlo, detta “il Salotto di Torino“. Sotto i portici in giacca e cravatta. Io e Andrea, giovane designer che l’anziano maestro ha tenuto a battesimo, arriviamo con dieci minuti di ritardo invece. Andrea vuole che ci conosciamo perché è rimasto innamorato delle mie interviste a Stanzani e vorrebbe facessi la stessa cosa con il suo mentore, che proprio in questo bar stile Liberty lo aveva ascoltato la prima volta per un lavoro in Honda. Ci arriviamo.

Andrea è designer Alfa Romeo, suo parecchio di quello che vediamo cucito sulla meccanica dell’attuale Giulia, e mio amico da un annetto, precisamente da Ginevra 2016. Insieme abbiamo già condiviso un tamponamento nella sua Mini d’epoca (che ora è intestata a me) e tante serate torinesi tra alcuni dei migliori designer al mondo. Dunque il passo è veloce, dal San Simone alla telefonata organizzativa. E Gallizio dice subito sì.

Mi stringe la mano squadrandomi come fanno tutti gli anziani dalla lunga vita piena di soddisfazione davanti al giovanotto rampante di turno. Andrea mi fa buona pubblicità come sempre e godo di quel minimo credito che non avrei potuto sperare in altre circostanze. Entriamo per accomodarci e l’interno del bar mi toglie il fiato. Sembra di essere cinquant’anni indietro. Se non fosse per gli abiti quasi moderni di me e Andrea, tutto quello che vedono i miei occhi ingannerebbe i tempi in cui ci troviamo. Dai camerieri allo stesso Gallizio, tutto sa di antico.

L’ultimo bagliore di tecnologia dato dal mio smartphone con vetro rotto viene spento dal gesto di Gallizio quando, con estrema naturalezza, tira fuori dalla tasca della giacca taccuino e penna stilografica. Già mi ha conquistato così, figuriamoci quando lo vedo disegnare una Stratos di profilo su quel foglietto beige. Perché lo fa? Lo aiuta a raccontare questa macchina che lui ha vissuto in primissima persona a suo tempo.

Racconta del nome, che doveva essere Stratò, come gli sci della Rossignol, e che proprio per questa ragione venne cambiato in Strato’s (l’azienda produttrice di sci non permise l’utilizzo del nome del suo prodotto di punta). Poi va avanti raccontando che in Bertone lui lavorava notte e giorno. Ci dormiva anche.

Esatto, per un lungo periodo ha dormito clandestinamente sotto una scrivania in Bertone. A vederlo così elegante e distinto oggi non ci credo facilmente. Va avanti con il racconto, mi dice che per prendere le misure alla Strato’s Gandini e gli altri lo fecero sedere su una pila di riviste, con un’altra rivista in mano, più altre riviste alla schiena per delimitare l’altezza del tetto.

Ora immaginatevi un ragazzotto, di notte, seduto a terra su delle vecchie riviste. Poi immaginate i suoi giovani colleghi che ad ogni “ancora” tolgono una rivista dal suo fondoschiena. Il ragazzotto seduto scende e scende pochi centimetri alla volta con una rivista nelle mani a mimare un volante. Di conseguenza abbassano anche la pila di riviste che indica l’inizio del tetto. Fino a che non prendono le misure finali, sulle riviste. Io ascolto questa storia con gli occhi illuminati, pregustando il momento in cui l’avrei registrata per il pubblico. L’avessi fatto quel giorno in quel bar…

Nasce la Stratos Zero e indovinate chi la porta sulle ruote proprio nella stessa piazza in cui ci troviamo a parlare? Esatto, Arrigo Gallizio. Nessun altro accetta questo compito “ingrato”. Lui si mette nell’abitacolo e la accompagna in gran comodità a fare la sua passerella in Piazza San Carlo, a pochi metri da dove sono io ora ad ascoltarlo qualche decade più tardi.

Giusto per dirne un’altra che la mia terribile memoria non mi aiuta a ricordare; Gallizio era presente anche il giorno in cui venne deciso il nome della Countach. Per lavorare alla sua forma lui, sopratutto Gandini e gli altri di Bertone, si nascondevano in un rimessaggio segreto (che, da quanto mi dice, era praticamente una stalla) e il proprietario di quella stalla, o qualcuno che lavorava lì intorno, vedendo il modellone in lavorazione esclamò la famosa parola “Countach”! Che non vuol dire assolutamente “contatto” come molti credono, nè tantomeno è legata al mondo dei tori come d’abitudine Lamborghini, ma è un’espressione di stupore piemontese.

Aveva preso parte alla fondazione della G Studio, azienda di prototipizzazione, dopo l’esperienza all’ombra di Bertone, e più avanti messo a disposizione la sua esperienza per i giapponesi di Honda, forse più apprezzato in terra straniera che in casa.

Insomma un altro custode di storie e sensazioni personali uniche se ne va e io ho fallito miseramente stavolta per non avervi regalato in tempo un’altra spettacolare testimonianza. Il minimo che posso fare è dedicargli queste poche parole, col peccato di aver dovuto rimandare la nostra intervista per un suo impegno dell’ultimo momento, proprio il giorno che “ripiegai” su una visita al Museo dell’Automobilie di Torino per girare qualche scena del video Bugatti EB112 uscito proprio stamattina dopo mesi.

Davide Cironi