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MOTO – L’amore per le bicilindriche italiane

La mia storia d’amore con i motori inizia che non andavo ancora alle medie. Se c’erano delle viti e dei bulloni smontavo e rimontavo di tutto, qualunque cosa fosse e qualsiasi forma avesse. L’impresa più ardua verso i 12 anni è stata far ripartire una vecchia motopompa che mio nonno usava negli anni ’60 per irrigare un aranceto: che bello sentirne di nuovo il rumore dopo decenni, che soddisfazione respirare di nuovo quel profumo di miscela che aspiravo con voluttuosità quando passavano i motorini che sognavo, quelli dei ragazzini un po’ più grandi di me.
Poi a 14 anni, complice il voto massimo preso all’esame di terza media, arriva lui: Aprilia RX 50 nuovo di pacca, versione 1994, un sogno!

Il primo giorno ci faccio 198 km filati, dalla mattina alle 7 alla sera alla 22: scendo dalla moto solo per i pasti! Ancora non volevo credere che quel sogno si fosse realizzato, che quella piccola, grande moto, fosse davvero mia.
A 16 anni chiedo insistentemente il 125 senza risultati, a 18 vado in concessionaria senza dir nulla ai miei genitori, forte di qualche risparmio in banca, per comprare la Yamaha Fazer 600 del 1998. Alla fine non ho il coraggio di fare una mossa tanto epica quanto azzardata, e torno a più miti consigli.

Quando inizio a lavorare stabilmente posso tornare a sognare, e a 25 anni compro una Honda CBR 1000 RR nuova: una delle più potenti 4 cilindri race replica dell’epoca. Tutti gli amici motociclisti mi sconsigliano l’acquisto, consigliandomi prima di passare da una 600. Ma io mi conosco e so già che me ne pentirei, sentendo la mancanza di potenza e desiderando una 1000 dopo pochi mesi: tanto vale fare la pazzia! E passare dagli 8 Cv dell’RX 50 ai 172 del CBR 1000 una pazzia lo è stata davvero!
I primi mesi, grazie al rodaggio (ottima scusa per andare piano!) sono di puro apprendistato, e non oso avventurarmi nella parte afrodisiaca della manetta: a rodaggio finito la prima accelerazione a gas spalancato mi toglie il fiato e la vista, con il cuore che batte all’impazzata.

Riprovo tremante e stavolta un sorriso ebete spunta sotto il casco.

Inizio ad abituarmi, compro la tuta completa, faccio le prime modifiche alla moto, inizio ad andare in pista, con la grande soddisfazione del ginocchio a terra già al primo ingresso… Per qualche anno mi convinco che non potrò mai avere, neanche a 50 anni, nient’altro che supersportive. Ho bisogno di sentire l’asfalto a 20 cm dal casco, di consumarci contro le saponette della tuta. Ho bisogno di quei cavalli possenti che ti spingono dietro la schiena, di quelle staccate assassine, di quegli ingressi in curva a freni ancora premuti.

Poi… Poi improvvisamente scopro l’affascinante mondo delle moto d’epoca e inizio a sognare una Kawasaki Mach IV 750 H2, la celeberrima “bara volante” degli anni ’70. Inizio a comprare libri, vecchie riviste e a leggere di tutto sull’argomento, scoprendo un mondo affascinante: quello delle sportive degli anni ’70.
Mi colpiscono soprattutto le italiane di quegli anni (Mv Agusta, Ducati, Moto Guzzi, Bimota, Laverda), con i loro telai e le loro ciclistiche anni luce avanti rispetto alla concorrenza giapponese: sono motociclette prestanti, bellissime, affascinanti! Leggo per caso anche la prova della moderna Ducati Sportclassic Sport 1000 S (2007), la meravigliosa e incompresa creatura di Pierre Terblanche.

Decido che dev’essere mia a ogni costo! D’altra parte ha tutta la bellezza della sua antenata (la mitica Ducati 750 Super Sport del 1973) senza averne i difetti di affidabilità, usabilità quotidiana e di… costo! Scopro infatti che per entrare in possesso di quel gioiello d’epoca anche 40000 euro rischiavano di essere pochi: un budget decisamente fuori dalla mia portata! Vada per la bellissima replica moderna, da affiancare al CBR: contatto un concessionario e ho l’amara sorpresa di scoprire che è già fuori produzione! Inizio a chiamare all’impazzata concessionari Ducati in tutta Italia, alla ricerca di qualcuno che ha ancora la Sport 1000 S invenduta: finalmente la trovo a Catania, tra l’altro in offerta, e un sorriso a 42 denti si stampa sul mio volto.

Quando entro nel Mondo Bicilindrico scopro sensazioni nuove e meravigliose, nonostante la metà dei cavalli a cui ero abituato: coppia ai bassi regimi poderosa, good vibrations, personalità! Improvvisamente il CBR inizia ad apparirmi troppo “perfetto”, asettico, ed inizio a percepire questa “perfezione” come un difetto.
Proprio così, a volte l’imperfezione è meravigliosa, e io mi innamoro pazzamente dell’imperfezione Ducati: se provo a guidarla come il CBR le sue sospensioni morbide scompongono e fanno oscillare la moto in frenata e dove frenavo con 2 dita qui ne servono 4. Inoltre la posizione molto allungata sul serbatoio, proprio come sulle sportive degli anni ’70, la rende scomodissima, molto più scomoda di qualsiasi sportiva moderna. Ma il suo sound baritonale e tuonante che si trasforma in ruggito sferragliante e desmodromico agli alti regimi, la sua bellezza mozzafiato, il mondo che lascia intravvedere dietro di sè e l’esclusività, fanno di quello che il marketing Ducati considera un clamoroso insuccesso commerciale, la mia nuova religione motociclistica.

Vendo così dopo 7 anni d’amore e senza rimpianti il CBR e inizio a cercare un’altra moto da affiancare alla Ducatona: dev’essere comoda per le gite in coppia, bicilindrica, coppiosa, raffreddata ad aria e bellissima.
Dopo aver visto ad Eicma 2010 la Moto Guzzi V7 Racer, quell’esotico marchio che fino ad allora non avevo mai considerato, si insinua nella mia mente: ne studio la storia e tutti i modelli dal 1921 ad oggi, compro qualunque oggetto, visito la storica fabbrica a Mandello del Lario, respiro aria di lago e di passione: insomma, divento anche guzzista senza ancora avere una Guzzi!
Vorrei prendere il Griso Tenni, ma in effetti è un po’ scomodo e pesante. Proprio a Mandello provo senza convinzione (a causa della scarsa cavalleria dichiarata) la V7, ed è di nuovo amore: quel vecchio bicilindrico ad aste e bilancieri, con il suo modo di pulsare, con la sua coppia di rovesciamento, con la sua grande spinta ai bassi regimi, mi ha conquistato.

Adesso coccolo le due bicilindriche italiane nel mio garage, le uso spesso, mi godo la loro storia, il loro fascino, le loro vibrazioni, il loro sound. Mi piace la loro splendida reinterpretazione del passato, la loro anima pane e salame. E penso che noi italiani, esterofili per eccellenza, dovremmo almeno studiare la nostra storia motociclistica, rispettando le  splendide creature della nostra terra, vecchie e nuove.

Oggi vedo troppe divisioni: harleysti contro guzzisti, ducatisti contro amanti delle giappo, bmwisti contro tutti. Un vero motociclista non vive di divisioni e partigianerie, come un pessimo tifoso calcistico, ma deve conoscere storia, tradizione e innovazione di ogni azienda, apprezzando o non apprezzando una moto per quello che è, non per il marchio che porta sul serbatoio.
Torniamo ad essere fratelli e non tifosi da stadio.

Fabrizio Capo