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La GTA Autodelta e il Re della pioggia – Introduzione al libro di Gian Luigi Picchi

di Vladimir Pajevic – Per Gian Luigi Picchi

La storia di Gian Luigi Picchi, pilota prodigio dell’automobilismo italiano, è la dimostrazione della tenacia e la passione che solo una certa Italia è capace di compiere. È certo ormai che nel cuore degli appassionati delle corse il nome di Picchi occupi un posto particolare. Nonostante l’apparente notorietà, la sua storia è rimasta avvolta da una sorta di mistero, ed ha preservato inafferrabilità protetta dall’aura di qualcosa magicamente esoterico, indissolubilmente legato ai ricordi.

È pur vero che la nostalgia esercita forte potere sulla nostra memoria e la nostalgia per un passato neanche troppo lontano, vissuto in modo meno artefatto di quello attuale, spesso richiama il gusto dello stile di vita ed i nomi dei nostri eroi dai tempi andati. Nei miei ricordi, la storia di Picchi parte da quei giorni della mia adolescenza vissuta verso la fine degli anni ’60, una come tante, fatta di sogni ed aspirazione di diventare pilota, segnata dai trionfi della casa del Biscione in un’Italia dove tutto sembrava possibile.

Quale occasione migliore per raccontare l’avventura di un amico grande pilota e di un marchio che hanno scritto un capitolo importante della storia dell’automobilismo sportivo italiano. Dietro la storia di Picchi e di quel periodo c’è anche la storia dell’Italia, gli anni della contestazione giovanile, i nostri sogni fatti di rivoluzione, di musica, di moda e fumetti, di una ostinata richiesta del nuovo e del diverso.

Nel contesto l’automobile aveva già perso il suo valore di status economico ed era diventata il disimpegno e l’avventura, il modo di vivere uno sport affascinante e, all’apparenza, meno elitario che nel passato. Quando, verso la fine degli anni ’60, il giovanissimo pilota tiburtino ha presentato le credenziali come nuovo pilota scelto dall’Alfa Romeo per l’impegno nelle corse ETCC, Picchi certamente era già astro nascente del Motorsport nazionale.

Fu il primo pilota che si era formato nel mondo del karting, e che, arrivato poi all’agonismo delle formule minori, ha vinto tutti i titoli nazionali incluso il Campionato Italiano in F3. Leggendo oggi le lusinghe della stampa specializzata dell’epoca che accendeva riflettori sul suo successo folgorante, sembrava che la carriera di Picchi fosse volta verso la formula massima, ma furono il Quartier Generale dell’Autodelta e il grande Carlo Chiti in persona, al cui fascino non era facile resistere, a decretare il futuro del pilota.

Quando si è veramente bravi si dà per scontato che ogni mezzo impiegato renda quel massimo livello già raggiunto, e le corse Turismo degli anni ’70 siano entrate nella leggenda proprio per il loro fascino nato dall’irripetibile mix di difficoltà dei circuiti dell’epoca e delle macchine apparentemente simili alle nostre usate quotidianamente.

Le grandi case europee ingaggiavano i migliori piloti delle formule per gareggiare nel leggendario Campionato Europeo ETCC, composto da una decina di prove disputate sulle piste sparse in tutto il Vecchio Continente. Pur tentato dalla F2, che sarebbe stato il seguito naturale per un pilota del suo talento, Picchi accettò l’offerta ed il resto è cronaca di un continuo successo, dalla durata breve, ma di un’insolita intensità.

Come corridore si è rivelato un giovanotto rigoroso e sobrio, senza grilli per la testa. Aveva le proprie idee sulla vita, sulle corse e sulla gente, e le esprimeva con disarmante lucidità. Il suo spessore intellettuale e sua intelligenza razionale, gli davano una posizione di quasi naturale superiorità. Era calmo, fino a sembrare distaccato, poco espansivo e dotato di eccezionale autocontrollo. Mostrava una curiosità e interessi diversificati, non solo la passione di guidare l’automobile da corsa, e le sue argomentazioni apparivano sempre frutto di riflessione ed erano ben costruite e si distinguevano in quel mondo di piloti della Turismo, fatto da individui simpaticissimi, con loro fascino dei play-boy, tutto sorrisi e pacche sulle spalle e sempre in cerca di quel poco di celebrità che la stampa specializzata poteva offrire alle loro gesta.

Tra questi appassionati gaudenti, spesso ricchi “gentleman drivers”, il progresso aveva per sempre cancellato l’immagine del pilota con occhialoni, papillon sulla camicia impeccabile e foulard, e ormai si assomigliavano tutti con loro caschi integrali e le visiere scure, ma Gian Luigi Picchi, pilota professionista dedicato, con la sua giovane età ed il suo educato modo di essere presente ma non invadente, decisamente stonava in quel variopinto circo radunato intorno alle piste.

Un campione si può ricordare in molti modi. Si possono ricostruire le sue corse, perché riviverle non è possibile, e cercare di decifrare l’aspetto tecnico-sportivo. Ma si può anche cercare di comprendere la sua complessa natura attraverso qualcosa di emotivo, di personale, attraverso l’avventura quotidiana fra la razionalità e la passione, senza votarsi all’una o all’altra soltanto. Così, la loro storia assume la forma del virtuale contrappunto dei fatti documentari ed il nostro immaginario, indissolubile dal ruolo che la cronaca o ancor più, il credo comune, hanno tessuto intorno a loro.

Gian Luigi Picchi corridore, aveva aperto tutte le porte che davano acceso alla sala del trono con apparente disarmante facilità, ma poi con una dichiarazione calma, senza alcun motivo noto ha annunciato l’abbandono del mondo delle corse, nel momento in cui la sua carriera di pilota chiaramente indicava le vie senza ostacoli. Così ha creato il precedente, unico anche in quell’incredibile e strambo universo che sono le corse automobilistiche. Era un campione nato con il talento e le doti straordinarie, e già beniamino e favorito dal pubblico dell’epoca in cui correva e in cui vinceva.

Ricordo un gran parlare in quei giorni, incredulità generale e la vasta offerta di spiegazioni improbabili. La sua decisione appariva ancor più incomprensibile dato che nello sport automobilistico già si affermava un profilo nuovo, del pilota professionista, cresciuto nelle varie categorie che nell’agonismo poco o nulla lasciava al caso o all’improvvisazione. Con lo sviluppo celere dei mezzi meccanici avanzati, si prefigurava una grande trasformazione che favoriva l’esaltazione di campioni come Picchi.

Comunque sia, oggi a distanza di molti anni, e senza intenzione di giudicare la sua decisione di allora, rimango sempre più convinto della validità di tale scelta. È pur vero che il Motorsport era rimasto orfano di una delle sue stelle più promettenti, ma è ugualmente certo che il giovane campione aveva capito che nella sua vita esistevano altri traguardi. La sua vita privata e la famiglia, gelosamente tenuti al di fuori del mondo delle piste, orgoglio ferito da qualche incauta dichiarazione di un costruttore, o la decisione della propria Scuderia di non partecipare in segno di protesta nel Campionato Marche, costituivano sicuramente pesi aggiuntivi, ma certamente non la causa della sua decisione radicale.

Le corse automobilistiche erano cambiate ma hanno preservato una ritualità antica che non ha visto mai cambiare l’essenza dei Ludi e Munera Gladiatoria. Erano rimaste fedeli alla grande kermesse di pubblico, passione ed impegno supremo. Per Picchi, come per gli altri piloti, la gara era vissuta come l’archetipo del pericolo inteso come la sfida estrema dove la posta limite era la vita stessa del pilota.

Il pubblico chiedeva ai propri beniamini la curiosità di aprire la porta proibita, di toccare il limite andando verso l’ignoto. Ciò che potrebbe far male attrae irresistibilmente. Spendersi in un atto assoluto, identifica la vittoria con passione. Spettatore e pilota si identificano in quella che è sfida al tempo, sfida alla morte, ed è lì che si origina la bellezza. La vittoria è solo la realizzazione di un rito ancestrale. Il pilota gareggia per dimostrare la propria superiorità ma anche per vincere contro sé stesso spostando più in alto il limite già raggiunto, diventando così cavaliere dell’impossibile, ripetendo un proprio rito di precisione, spesso non verificabile empiricamente.

La corsa poi chiedeva al corridore di sviluppare un rapporto intimo con la pista, chiedeva determinazione, coraggio e analisi impeccabile, perché solo così era possibile emergere dalla sarabanda sul filo della velocità estrema. In fondo, in un gioco cosi, ciò era comprensibile, perché tutta la parentesi agonistica risultava solo un edificio di intuizioni. Una volta schierati sulla griglia di partenza, i piloti si trasformavano, in cerca di quel guizzo in più che li rendeva partecipi di una mitica festa, protagonisti di un autentico sogno che ha del magico. Assoggettato dalla tensione emotiva, propria ed anche quella della folla ai bordi della pista, il corridore acquisiva una strana sensazione di potere sovrumano, si sentiva capace di compiere qualsiasi impresa e di sovvertire con la propria abilità anche la situazione più sfavorevole.

Se poi questo miracolo non avveniva, importava poco, anzi paradossalmente il legame che univa il corridore con il proprio tifoso ne usciva rafforzato. Saper assorbire la sconfitta, con la certezza che in prossima gara si poteva e doveva ricominciare tutto daccapo con umiltà e passione, esaltava il mito dell’eroe e lo portava a toccare l’apogeo. La verità è che in ogni gioco è sempre bello vincere. È questa volontà di vittoria che distingue il pilota fuoriclasse e richiede un’adeguata preparazione psicologica per correre. Non è possibile vincere una gara se non si è completamente decisi a vincerla. In un universo così speciale e governato dalle regole particolari, alcune costanti fra quelle elencate convergevano in modo naturale nella guida di Gian Luigi Picchi. L’analisi del suo modo di pilotare rivela l’estrema precisione e la straordinaria capacità di tenere la macchina in equilibrio in ogni situazione, senza sforzo evidente.

Non c’è un ricordo, una foto di Picchi alla guida funambolica o all’infuori delle leggi della fisica. Il suo uso della pista è razionale e la sua macchina non appare mai sbilanciata. A parità di un’evidente fiducia in sé stesso durante la corsa e di tempi di reazione quasi sovrumani, la precisione di Picchi rispetto a quella di altri piloti derivava dal perfetto autocontrollo, e dall’ordine interiore che gli permetteva la massima tranquillità spesso dimostrata in condizioni estreme. È stato un campione straordinario non solo per la sua capacità di pilotare automobile da corsa, ma anche grazie alla sua capacità intellettuale e abilità di espandere il controllo delle proprie reazioni in ogni situazione limite.

All’epoca era difficile trovare un pilota simile. Passava indifferentemente dalle ruote scoperte di una monoposto alle carrozzerie chiuse delle vetture che provenivano dalla produzione di serie. A dimostrazione di questo suo incredibile senso rimangono le vittorie ottenute in condizioni estreme con le monoposto, con le Turismo e poi decenni dopo, con la leggendaria Ferrari GTO nella categoria Sport o potentissima BMW M5. Però, la sua breve parentesi di pilota professionista e spesso identificata con la presenza fra gli eletti dell’Autodelta, il braccio corsaiolo dell’Alfa Romeo nel periodo quando la Casa del Biscione dettava le leggi nel campionato ETCC.

Il nome Alfa Romeo è stato da sempre il sinonimo di automobile sportiva, associata al mondo delle corse, e la sua storia indissolubilmente legata alle strabilianti vittorie. All’inizio degli anni ’70, all’Alfa Romeo andava il merito di avere prodotto la magnifica GTA Junior, vettura potente con indiscutibile fascino destinata a dominare la categoria Turismo, e a Gian Luigi Picchi va certamente il merito di averla portata al massimo trionfo, regalandole carisma con l’aurea dell’invincibilità.

Ho avuto fortuna di ammirare la grande bravura di Picchi in alcune gare del periodo al volante della GTA JuniorMuso Giallo”. Impressionava la sua abilità nel curvare sempre al limite senza mai incorrere in errori di guida, uscendo puntualmente più veloce degli altri. La precisione con la quale governava la vettura in corsa, derivava dalla sua esperienza di guida con le ruote scoperte. Usava freni, motore e cambio con rispetto per il mezzo, ed anche le gomme della sua vettura erano meno deteriorate alla fine della gara, mentre nella corsa era tenace ma estremamente leale e sincero.

Il suo buon senso e l’intelligenza nel pilotare, hanno spesso determinato l’esito della corsa. Nel bellissimo libro che ha scritto, è Picchi che narra la propria storia. Capitoli brevi, quasi una cronaca degli avvenimenti di quella ormai lontana stagione, la testimonianza di un protagonista con ruolo primario ci coinvolge partecipi della sua avventura. I flashback che spiegano la genesi e la crescita del suo enorme talento, ed i personaggi che hanno segnato pietre miliari nel suo percorso, sono come segnalibri in un breve romanzo documentario.

Dedicato con tanto affetto a Gian Luigi Picchi e a quei magici anni, pensando anche a quel ragazzo che sono stato.

di Vladimir Pajevic

 

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