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Nissan Silvia S14a – Una vera storia d’Amore

Nissan Silvia – Love Supreme


Ci sono automobili che, per un motivo o per l’altro, lasciano un segno profondo nella vita di ognuno di noi. È possibile che sia il caso o, secondo il parere di qualcuno, che si tratti di destino, ma ci sono auto la cui affinità al nostro essere non può non far credere che sia vivo un legame profondo tra i due attori di questo rapporto che né il tempo, né la distanza fisica possono in qualche modo annullare.


Tutto comincia nel 1984, data resa famosa dal “Big Brother” di Orwell, ma per me quell’anno rappresenta l’inizio della mia avventura in questo mondo e la nascita di quell’auto che, quasi certamente, ha fondato un concetto nuovo, che andava oltre quello della Supercar: parlo di un mostro progettato e costruito per competere nella classe regina del Gruppo B, la Ferrari 288 GTO.


Probabilmente anche a causa di questa coincidenza, da bambino ero follemente innamorato delle auto di Maranello, ma l’unica cosa che potevo apprezzare di esse era il loro design. La vera origine del mio amore per l’auto, quindi, derivò dal loro stile e a quei tempi, poco sopra il longherone di ogni rossa, c’era sempre e solo una firma: quella del Maestro Pininfarina.
Dopo mille scarabocchi sui fogli di carta finalmente il primo approccio con le quattro ruote da “conduttore” che avvenne, come per la maggior parte dei bambini affetti da patologia automobilistica congenita, con un trattorino a pedali. Fino a qui tutto nella norma, nulla che si discostasse dalle esperienze della maggior parte dei cuccioli d’uomo, ma io in quel mezzo vedevo qualcosa di più… fine.


Tolta dalla mente la foggia poco elegante del “plasticoso” mezzo agricolo, io amavo usarlo in modo, per così dire, poco consono. La caratteristica che adoravo dell’allegro trattorino era il così detto “scatto fisso”. Quel semplice meccanismo mi permetteva di innescare ciò che, una volta diventato adulto, sarebbe diventato il mio più grande feticcio: lo “scivolamento” dell’asse posteriore.
Esatto: driftavo con un trattore a pedali.


Pedalavo a perdifiato raggiungendo la massima velocità percorrendo in lungo vialetto di casa per poi bloccare di scatto il ponte posteriore ruotando il piccolo sterzo e innescavo così memorabili 180 gradi che, talvolta, inducevano anomale rotazioni non solo sull’asse di imbardata ma anche su quello di rollio: in poche parole, finivo a ruote all’aria. La maggior parte delle volte, però, il mio intento veniva raggiunto e la splendida sensazione di quel movimento rotatorio del mezzo su cui ero seduto era troppo appagante perché potessi smettere di mia volontà.

La mia prima “drift car” a pedali, infatti, non resistette a lungo all’uso improprio che ne facevo ed il suo asse posteriore, un triste giorno, si spezzò a metà. Fu quella la prima illustre vittima della mia abitudine da sempre più cara e, per molti, sconsiderata: il sovrasterzo.
Dopo allora, l’astinenza da quella inebriante sensazione di sbandamento perdurò per troppi, lunghissimi anni. L’amore per l’auto però era troppo forte, e tornai ad appassionarmi maggiormente al disegno, che alimentò la fantasia ed i miei sogni a quattro ruote per molto tempo.
Le influenze per creare le mie preferenze automobilistiche sono sempre state molte e diverse tra loro e forse per la prima volta, quando avevo circa 10 anni, anche quella delle auto giapponesi si fece spazio seriamente nel mio immaginario, nonostante già prima di allora, nella mia cameretta, non mancassero modellini di auto sportive provenienti dalla terra del Sol Levante.


Un bel giorno del ’94 mio padre tornò a casa con una brochure di un’auto che mai avrei immaginato gli potesse seriamente interessare: quella della nuova (all’epoca) Nissan 200 SX Silvia (S14). Amava le auto sportive, è vero, ma a quei tempi era abituato a pesanti berline da famiglia che poco avevano a che fare con quella bassa e slanciata coupé. In gioventù, però, il suo primo amore fu una Giulietta Ti della fine degli anni ’50, e confessò che da allora sognava di tornare a possedere auto leggere e con molto brio, proprio come quell’Alfa Biancospino di cui mi parlava sempre con grande trasporto.


Incuriosito da quell’insolita Jap studiai a fondo la sua presentazione, capendo meglio il perché dell’interesse di mio padre per quello strano oggetto e dopo qualche mese ammetto che iniziò a farsi largo anche nel mio immaginario, diventando pian piano un sogno, seppur in stadio embrionale.
Nel frattempo, grazie all’avvento dei simulatori di guida ed all’aver raggiunto dimensioni che mi consentivano di arrivare alla pedaliera dei kart a noleggio ricominciai, a 15 anni, ad assaporare l’ebbrezza della guida e ad innamorarmi nuovamente della dinamica del veicolo.
La mia storia di appassionato, quindi, è sempre stata contraddistinta dall’alternanza tra la passione per il design e la guida, meglio se sporca e da “esibizionista”: da Hoonigan tanto per capirsi.

I 16 anni mi stavano strettissimi, e il desiderio di sentire di nuovo quella sensazione di “allargamento” del ponte posteriore di un mezzo a motore iniziava a diventare insostenibile. E proprio in quell’anno venne a ritrovarmi una vecchia conoscenza, ormai quasi completamente dimenticata. In un poco affollato padiglione del Motorshow di Bologna vidi esposta una 200 SX, ma diversa da come l’avevo conosciuta qualche anno prima. I fanali anteriori non erano più arrotondati ma spigolosi, affilati, decisamente più incazzati di prima.

Questo nuovo stile la rendeva ai miei occhi molto più carica di appeal e coerente con quello che erano le sue caratteristiche tecniche. Questa volta me ne innamorai perdutamente, ma oramai non la vedevo più come una possibilità in quanto mio padre nel frattempo aveva già fatto altre scelte, automobilisticamente molto diverse dalla Silvia.
Dopo quell’incontro non feci altro che comprare Silvia S14a su Gran Turismo, cercando di carpirne i segreti e le capacità. Anche modificandola pesantemente riuscivo sempre ad apprezzare quella caratteristica che le consentiva, a differenza di molte altre auto, di essere neutra ed equilibrata in ogni situazione.


Arrivati i 17 anni iniziai a fantasticare sull’auto che avrei potuto avere di lì ad un paio d’anni, e nonostante l’innamoramento per la Silvia dovevo scontrarmi con la dura realtà: non avevo alcun reddito, ero in 4° superiore e, soprattutto, non sarebbe stato facile convincere un padre come il mio che se mi avesse dato la possibilità di guidare un’auto da 200 cavalli, pesante poco più di 1200 kg di peso e senza nessun controllo trazione, ci sarei andato piano senza spalmarmi sul primo platano a bordo strada.


Chiusi le ali, toccai il pavimento con i piedi ed iniziai a pensare ad altre alternative, facendo sempre ricorso al mio amore per il design e convincendomi che una Peugeot 406 Coupé Pininfarina, in fondo, era una Ferrari, anche se a trazione anteriore. Magari avrei potuto metterle dei cerchi a 5 razze ed un body kit per renderla un po’ meno Peugeot.
Giusto, il body kit…
I miei 17 anni caddero nel 2001, e di body kit quell’anno ne vidi parecchi, ma tutti appiccicati ad auto di importazione cariche di NOS fin sopra i neon: Fast & Furious docet. Ed in quella maledetta pellicola ritrovai la Silvia che tornava a farmi l’occhiolino. Comprai il VHS e quasi consumai quella video cassetta riguardando all’infinito la scena in cui la S14a bordeaux di Letty “bruciava” nelle Race Wars una RX-7. Quell’auto mi perseguitava.


Tornai con i piedi per terra e mi convinsi che sarebbe stato impossibile trovarne una in Veneto, in buone condizioni e ad un prezzo decente, e quindi potevo mettermela via, di nuovo.
Con mio padre iniziai a spendere qualche pomeriggio andando alla ricerca di auto potenzialmente interessanti così, tanto per sognare un po’. Avevo ancora 17 anni e nessun reddito, quindi poteva esser vista come una perdita di tempo ma a me piaceva, era un passatempo che avevamo da quando ero piccolo anche tenuto conto che, all’epoca, per trovare un’auto usata che ci piacesse ed in condizioni davvero buone, la ricerca poteva durare degli anni. Non esisteva Autoscout24 ma solo tanti concessionari che avevano pezzi interessanti imboscati in angoli del parco auto impensabili.


Così accadde che, un pomeriggio d’estate del 2001, tra le tante Prelude, 406 Coupè, Alfa GTV, Fiat Coupé, Toyota Celica e simili, passammo davanti ad un concessionario Nissan e vi trovammo una Silvia S14a.
Rimasi interdetto e completamente inebetito. Il colore era, per i miei canoni di allora, semplicemente osceno. Una specie di verde bottiglia che in quella giornata plumbea pareva pure opaco, ma chi se ne fregava: avevo trovato una Silvia.


Non ricordo altro se non che la sorpresa e la felicità vennero istantaneamente smorzate dalla consapevolezza che non avevo ancora 18 anni, patente, soldi per comprarla. Lei era lì, più unica che rara, e per quanto poco mercato avesse non mi avrebbe certo aspettato. Ad ogni modo eravamo lì per sognare, quindi scendemmo dalla nostra auto ed andammo a vederla.
Era bassa, e scura. Dentro e fuori.


Aveva gli occhi accigliati e pronti a guardare dritto nei fari qualche pesante e costosa coupé tedesca come per dirle di stare al suo posto, che sull’asfalto nulla avrebbe potuto fare contro di lei, progettata e costruita per andar forte, sempre e comunque, sul dritto, in curva o di traverso.
Ricordo quando vidi per la prima volta i suoi cerchi piccoli, da 16, e le carreggiate strette che facevano sembrare i parafanghi anteriori sporgenti come le spalline della giacca di un tailleur anni ’70.
Però era bella, e bassa, tanto bassa. Bisognava calarsi nell’abitacolo nonostante quelle sospensioni che facevano intravvedere le molle da quanto distanziavano la ruota dal parafango. Seduto al posto di guida mi sentivo come in un’auto da corsa.


Neanche la provammo visto che sarebbe stato solo un far perdere tempo al venditore e ce ne andammo. Non riuscivo nemmeno ad esser triste in quanto consapevole che quell’auto l’avevo trovata troppo presto per la mia attuale situazione e che quindi non avrebbe mai potuto esser mia. Ero solo felice di aver accarezzato, nel più autentico significato, un mio sogno.
Arrivarono i 18 e la patente; ricordo ancora il librone dei quiz a terra, di fianco al mio letto sotto l’ultimo numero di EVO (quello vero dei primi anni 2000) ed il catalogo di ricambi sportivi per auto con cui ogni tanto “addobbavo” la Fiesta di mia madre.


Ero a dir poco gasato e feci l’esame di teoria poco dopo aver compiuto gli anni. Fatte due guide per compiacere l’autoscuola fissai l’esame pratico. Ero in procinto di essere libero, di raggiungere il mio sogno più grande da sempre: conseguire la patente di guida.
Ma la vita è strana e… STOP.
Mi infortunai e dovetti posticipare l’esame pratico.
Tolto il tutore al braccio dopo un mese, in preda allo sconforto, cercai di trovar sollievo nella solita ricerca di una potenziale prima auto. Non so come mai ripassammo davanti alla concessionaria in cui trovammo la Silvia qualche mese prima.
Non so come mai, la trovammo ancora lì.


Non avevo ancora ripreso ad alzare il braccio infortunato ma ricordo che il primo movimento verso l’alto che gli feci fare fu quello per accendere la plafoniera tra i sedili di quella Silvia.
Stavolta lasciai la concessionaria più triste di quanto non fossi nell’occasione precedente poiché ancora non c’erano le condizioni per poter parlare di acquisto di quell’auto, ed ero ormai certo che le possibilità di trovarla ancora lì ad aspettarmi sarebbero state tendenti allo zero.


L’estate dei 18 è stata bella, avevo la patente ed un diploma in tasca, così iniziai a lavorare in uno studio e potevo permettermi di comprarmi un po’ di benzina e qualche alcolico. Spesso “lanciavo il sasso” sperando che il discorso “auto” si aprisse seriamente ma purtroppo la cosa sembrava cadere puntualmente nel vuoto, tranne un’unica volta in cui mio padre mi rivolse una domanda troppo diretta perché questa potesse passare inosservata: ma allora ti piace di più la Silvia o la 406 Coupé?
Indovinate la risposta?


Pochi mesi dopo tornai in quel concessionario Nissan, ormai un anno e mezzo dalla prima volta che la vidi lì, in mezzo a tutte quelle auto insulse, tanto brutte quanto facili da vendere.
Stavolta la accarezzai, la provai e la guardai con altri occhi.
Occhi di un innamorato al primo appuntamento, occhi di chi spera ardentemente che non vada tutto a rotoli proprio ora che, non sa neanche lui come, sta per coronare un sogno quasi decennale.


Aveva 3 anni e meno di 30.000 km, con qualche graffietto fatto da chi non si cura molto di un’auto comprata nuova a 50 milioni di lire. L’autoradio l’avevano portata via ma chi se ne importava, io bramavo ascoltare solo l’SR20DET sotto al cofano.
Tutto andò bene e una settimana dopo la portammo a casa. Ovviamente non potei guidarla, mio padre voleva farmi sbavare e ci riuscì alla grande. A dirla tutta voleva anche farmi capire cosa stava per mettermi in mano: una giostra.


Non ricordo di averlo mai visto così concentrato, felice e preoccupato al tempo stesso mentre mi faceva capire come quelle ruote posteriori potessero girare a loro piacimento fregandosene altamente se sotto c’era dell’asfalto che, in teoria, avrebbe dovuto offrire loro un attrito tale da costringerle al semplice rotolamento.
Le prime guide furono poco istruttive. Non mi capacitavo ancora di come mio padre avesse potuto affidarmi, a soli diciotto anni, una simile arma, quindi non potevo permettermi errori che avrebbero potuto, in qualche modo, separarmi da quel sogno realizzato.
Riuscivo a farci 12 km al litro in quel periodo, ma nel giro di qualche settimana iniziai a sentire che, per quanto piano andassi, il posteriore scivolava, voleva scivolare. Era la sua natura, e come tale doveva essere assecondata.

Ricordo bene quel periodo della mia vita.
Ricordo che il mio consueto tormento, i perenni conflitti interiori che mi affliggevano si stavano pian piano affievolendo; forse, proprio grazie a quella coupé verde scuro.
Perché, se non lo si fosse già capito, Silvia era per me ben più di un’auto. Era la più alta espressione di libertà che sino ad allora avessi mai sperimentato, la più grande attestazione di fiducia da parte di mio padre che avessi ricevuto, la più aderente espressione automobilistica a quello che avrei voluto essere: attraente, elegante, veloce, efficace, divertente e, soprattutto, indiscutibilmente coerente alla propria natura.


Invidiavo alla Silvia anche la sua capacità di farsi notare solo da chi apprezzava e conosceva davvero le auto, mentre sapeva passare inosservata a chi era completamente avulso da quel mondo; con tutta probabilità, anche grazie a quel Blue Emerald Pearl (che iniziavo ad apprezzare) in cui era declinato il suo bel vestito basso e filante.
Passavo ore ad ammirarla e ad accarezzarla mentre la lavavo, ed ogni volta che lo facevo scorgevo un particolare, una caratteristica che in pochissimi altri potevano conoscere ed apprezzare di lei. Facendolo, tentavo di capire come enfatizzare quelle sue peculiarità, sottolineando e valorizzando il lavoro dei designer e dei suoi progettisti. Ecco che iniziarono i primi, tenui, interventi per “customizzarla”: una sottile linea argento sotto alla linea di cintura, loghi Silvia della versione giapponese, pinze freno rosse, sotto paraurti posteriore, fari fumé e pochi altri tocchi, perché la mia intenzione non era certo quella di “addobbarla” come un albero di Natale, ma di evidenziarne l’anima da Gran Turismo più che da sportiva pura.


Il suono cupo e potente dell’ SR20DET poi, era terribilmente sexy.
Non aveva la musicalità e la voce agli alti giri dello straight six che girava a casa mia in quel periodo, ma al minimo trasudava potenza anche solo a sentirlo. Ed il sibilo leggero che usciva dallo scarico, quello che udivo ogni volta che scendevo dall’auto per chiudere il cancello una volta rincasato, erano fusa dolcissime, piacevoli quanto i suoni che venivano dai suoi scarichi incandescenti che si raffreddavano una volta messa a dormire.


Pian piano imparai a conoscerla, studiando la sua tecnica e capendo come questa influenzava il suo comportamento dinamico.
Iniziavo a conoscere la sua curva di coppia e tentavo di trarre il massimo dalla spinta che offriva l’SR20DET:

povere Audi TT da 225 cavalli
povere Golf GTI
povere BMW 325
povere Maserati 224
povere Mercedes SL 500
povere Porsche Boxster 2,5 litri

La Garrett T28 non era una “turbinona”, anzi, ma faceva quello che doveva e rendeva bella corposa e costante la spinta oltre i 2.000 giri, dando quella bellissima sensazione di sovralimentazione che sino ad allora non avevo mai sperimentato. Era come se una mano invisibile facesse accelerare l’auto più di quanto il suono del suo salire di giri facesse percepire, ed il leggero telaio della Silvia le rendeva facile il compito.


Erano esperienze nuove per me, ma dovevo analizzare bene tutti quegli elementi per passare allo step successivo, quello che mi avrebbe permesso di sfruttare la caratteristica migliore della Silvia: il suo handling ed il suo impareggiabile equilibrio.
Per uno che sino a pochi mesi prima aveva fatto più chilometri alla Playstation che in strada era un po’ complicato riuscire ad esser certo di saper controllare al meglio la dinamica di un veicolo prestazionale come quello, e la consapevolezza di non poter sbagliare – pena l’addio definitivo ad un sogno che ancora non aveva compreso pienamente come avesse fatto a raggiungere – complicava oltremodo la situazione.
Ma la pratica rende perfetti e – aggiungo io – degli Yokohama A028 duri come il legno aiutano.


Grazie a quelle coperture con ancora un po’ di battistrada ma ormai vecchie e con pochissimo grip, imparai davvero a leggere il telaio della Silvia, perché la perdita di aderenza al posteriore avveniva sempre dolcemente, senza provocare sussulti e, soprattutto, permettendomi di gestire le derapate a basse velocità, non avendo quindi bisogno di chissà quale aeroporto per imparare a conoscere il vero comportamento dinamico dell’auto.
Un altro incredibile vantaggio di quella consistenza granitica dei pneumatici era il fatto che non producevano più alcun suono scivolando sull’asfalto, permettendomi qualche divertente “divagazione” anche in strada, senza attirare troppo l’attenzione degli eventuali spettatori alle mie improvvisate evoluzioni.


Mi sentivo bene ogni volta che la guidavo.
Passavo ore ed ore nelle zone industriali deserte a capire come e quanto potessi derapare senza girarmi e mantenendo l’equilibrio il più a lungo possibile. Era una scelta obbligata fare queste esperienze (oltre che un piacere), perché avendo sempre sotto al sedere un’auto che slittava sul dritto inserendo la terza marcia e scivolava sul bagnato come se ci fosse sapone sulla strada era necessario capire come gestire la perdita di aderenza; cercare di evitarla sarebbe stato completamente inutile.
Ad ogni manovra imparata bene tornavo a casa, lavavo la Silvia per renderla presentabile, mi fermavo a guardarla e ripartivo, per il puro gusto di guidarla e di mettere in pratica quanto imparato, affrontando le più belle strade che, mese dopo mese, scovavo nella mia regione.
I miei fine settimana e le mie serate erano quasi tutti costellati di “momenti Silvia”, in cui le poche cose che contavano erano un buon CD di Robbie Williams (da ascoltare solo nei “trasferimenti”, tra una “prova speciale” e l’altra), un paio di Puma Sparco (quella di destra sempre consumata all’esterno) ed i finestrini aperti, per sentire meglio cosa succedeva intorno a “noi”, cercando di avere meno elementi possibile che filtrassero l’esperienza di guida.
Ogni viaggio era un tentativo di raggiungere la perfezione, in tutto.


Lo stacco frizione doveva essere dolce ma veloce, ogni scalata doveva sempre avvenire dopo una doppia debraiata, le cambiate non dovevano essere forzate ma dovevano essere gli ingranaggi della trasmissione a “chiamare” l’inserimento del rapporto giusto e lo sterzo doveva essere accompagnato nei controsterzi quasi solo dallo sguardo, perché le curve fatte bene erano quelle generate dal solo dosare l’acceleratore.
Così facendo, cercando sempre di affinare il più possibile la tecnica, i piccoli gesti, ho vissuto esperienze memorabili, in occasione delle quali spesso mi divertivo ad ammirare i peli delle mie braccia che si rizzavano sulla pelle. Ogni guida diventava una danza, ogni strada aveva un suo ritmo scandito non da un metronomo, ma dalla cadenza delle curve e delle pieghe del manto stradale e c’erano quei giorni in cui riuscivi a ballare da Dio, scandendo le movenze come se l’armonia più pura si fosse impadronita di quell’istante. A volte mi chiedevo se io e Silvia fossimo la stessa entità perché, dopo lunghi minuti di guida veloce ed intensa, mi pareva di sentire i liquidi di trasmissione e differenziale scaldarsi assieme a ciò che mi scorreva nelle vene, sangue o benzina che fosse, raggiungendo una sintonia perfetta.


In quella parentesi di vita tornai ad essere il bambino entusiasta che bloccava il ponte posteriore del suo trattorino a pedali e, quando non innescavo quelle “gloriose” derapate con la Silvia, mi rifugiavo in un kartodromo con un centino a due tempi che urlava come un disgraziato, con il quale finivo immancabilmente per scatenare le ire dei miei amici/tutor, che volevano fossi veloce e non perdessi tempo a fare il cretino con la guida sporca.
Con Silvia poi, mille esperienze memorabili ed altrettanti aneddoti da raccontare; come quella volta che, sulla neve, fui costretto ad accelerare a pochi metri dall’auto di fronte a me, completamente ferma, per riallineare il posteriore dopo che innescai inavvertitamente un blocco del ponte, arrivando a pochi centimetri dal paraurti di chi mi precedeva.
Dopo anni di utilizzo (intenso) e di guidate epiche la mia piccola Jap non mostrava segni di affaticamento, forse anche grazie al fatto che non ignoravo che avesse solo tre litri di olio nel motore, e quindi glielo cambiavo spesso oltre a coccolarla in molti altri modi, ma sentivo che le sospensioni non le consentivano più di esprimersi come aveva sempre fatto. Montai quindi delle Tein Flex regolabili e le barre duomi Cusco.
Il mio più grande timore, facendolo, era che la barra duomi anteriore facesse insinuare nella dinamica della Silvia il mio più acerrimo nemico: Mr. Sottosterzo.


Ma così non fu, e dopo qualche regolazione trovai un buon compromesso che la rese gestibile sia in strada che in pista, tornando ad evidenziare quelle sue eccelse doti dinamiche.
7 anni dopo l’acquisto e raggiunti i 210.000 km la mia vita era cambiata, io ero cambiato.
Ma quando un’auto ti dona quello che ha donato a me Silvia non si può far finta di niente, non si può trattarla come una “macchina” e disfarsene senza farsi troppi problemi.
È parte di te, ha acquistato un’anima e tu non puoi far finta di niente. La si può pensare come si vuole ma, personalmente, credo che noi umani abbiamo una capacità innata, qualcosa di “magico” ed unico: abbiamo la virtù di saper donare la vita a ciò che amiamo veramente. Ed è quello che credo facciano i malati di automobili con le loro “creature”. Non potevo non pensare a tutte le volte che sono riuscito a fare cose con la Silvia che non credevo sarei riuscito a fare. Non potevo ignorare tutte le volte che, nonostante la mia inesperienza, è filato tutto liscio.
Lei mi aveva donato troppo ed aveva ancora molto da dare, quindi decisi che pagare un bollo in più all’anno era quantomeno un atto dovuto a quel sogno divenuto realtà pochi anni prima.


Ora lei c’è, ed ha assistito a tutte le mie “trasformazioni”. E’ stata con me quando mi sono fidanzato, ha assistito ai miei lutti, era in garage a salutare me e mia moglie quando siamo tornati alle 4 di mattina dopo esserci sposati, ha accolto e cullato i miei due figli, il più grande dei quali ha due anni, e la chiama con un nome strano che suona tipo “Pibba”. La adora, e tra quelle di casa è la sua auto preferita (e non ci sono trazioni anteriori…), tanto da chiedermi di andarci in giro assieme tutte le volte che può.
Cos’è stata e cos’è oggi per me la Silvia?


Sarebbe difficilissimo rispondere a questa domanda. Potrei dire un sogno, una dimostrazione di fiducia, la tanto agognata libertà, un rifugio, una sfida, una compagna di vita, una divertentissima giostra, o potrei darle mille altre definizioni.
Probabilmente però, quello che è più semplice definire non è ciò che ha rappresentato o rappresenta lei, ma quello che è stato e sempre sarà il rapporto tra me e lei: senza esagerare, credo si tratti di una storia d’Amore.
Anzi, per dirla con una canzone di Robbie Williams della nostra giovinezza, un “Love Supreme”.

di Antonio Polizzi