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I vostri articoli: Storia di nonno, nipote, e Fulvia GT

Si dice che nulla venga dal caso. Se è vera questa affermazione, allora devo alla pandemia di coronavirus la storia che vi sto per raccontare. La protagonista di questo racconto è una Lancia Fulvia berlina. Un’automobile d’altri tempi, destinata ad un’utenza più raffinata che benestante, che mio nonno aveva comprato assieme a suo fratello, con cui ne condivideva l’uso e la proprietà nei tardi anni ‘60.

Appartiene alla fine degli anni novanta il nitido ricordo di quando, con la forza dei miei 4 anni, aiutavo lo zio a spingere fuori dal garage quell’automobile, e in seguito assistevo alla cerimonia di messa in moto prima di partire per una commissione in paese. Ricordo bene la forma squadrata, i fanali tondi gemellati all’anteriore e quel motore, che mi è sempre restato impresso per l’inconfondibile e vispo timbro allo scarico.

Quella macchina mi affascinava, era diversa da quelle che vedevo per strada: priva di plastica, lucida e brillante per le cromature. Aveva un aspetto ricercato, sebbene non fosse vistosa né -diciamolo- attraente come una blasonata sportiva. Allora non sapevo ancora cosa fosse un’auto d’epoca, sapevo che era vecchia ma non lo dimostrava, era ben conservata al punto da sembrare nuova.

Durante le calde estati trascorse dai nonni, da piccolo appassionato di motori quale già ero, l’accensione della Fulvia era uno dei miei momenti preferiti, a cui assistevo senza la possibilità di montare in macchina o vederla da vicino, per paura che potessi farmi male.

Purtroppo la permanenza della Fulvia in famiglia era ormai giunta al termine: veniva usata sempre più raramente, e alla prima occasione utile fu miseramente venduta a un commerciante di automobili del paese, dopo oltre trent’ anni di convivenza. Era il 2001, avevo cinque anni. Alla mia successiva visita dai nonni, chiesi subito la ragione dell’assenza di quella macchina. Fui liquidato con una risposta sbrigativa: la macchina era stata rivenduta e forse era già finita nell’Ex-Jugoslavia, come ferrovecchio o poco più.

La sua dipartita aveva scatenato sentimenti contrastanti e nessuno ne voleva discutere. Dopotutto era solo una macchina.
Passarono gli anni, ma non dimenticai mai la Lancia. Ogni tanto chiedevo al nonno di raccontarmi un aneddoto sulla macchina, e prontamente venivano a conoscenza di fatti di vita quotidiana, storie di famiglia.

La macchina gli fu consigliata dal suocero, mio bisnonno, automobilista di lungo corso che possedeva al tempo una Lancia Flavia, sorella maggiore della Fulvia. Restano indelebili i viaggi con quarti di bue sul tetto, dal grossista verso le loro macellerie, affrontando l’autostrada (ancora a due corsie) a tutta velocità, scorrazzando tra le file di camion per non far deperire il prodotto.

Quindici anni dopo questi aneddoti, mi ritrovo adolescente. Scendo al mare con regolarità per salutare i nonni e aiutarli a tenere in ordine il giardino, come un qualsiasi ragazzino. Aprendo un armadio in cerca di attrezzi, mi ritrovo in mano una striscia di gomma con dei fori sagomati, pronti per accogliere qualcosa. “Era della Fulvia, serviva per l’inverno” risponde il nonno, “veniva applicata alla griglia per tenere caldo il radiatore, e quei fori lasciavano spazio agli stemmi della macchina”.

Mi si accende una lampadina: la Lancia! Chissà che fine avrà fatto… Inizio a chiedere insistentemente di quella macchina, ma i ricordi sono ormai vaghi e non ottengo informazioni utili, né numeri di targa né altri dettagli utili per iniziare la ricerca. Chiedo allora ai nonni, ogni volta  che vado a trovarli, di mostrarmi vecchie foto, e inizio a passare in rassegna qualche baule alla ricerca di qualche indizio che possa ricondurmi a quella macchina. Ma avanzo alla cieca, senza seguire una linea sistematica.

Primavera 2020: l’italia intera è chiusa in casa, flagellata dal CoVid-19. Di comune accordo con la famiglia, decido di passare il lockdown col nonno, ormai ultranovantenne, per tenergli compagnia. Nelle fredde giornate di marzo, finalmente inizio una campagna di ricerca sistematica perlustrando ogni angolo. Io apro i bauli e il nonno, memoria storica della casa, mi affianca nelle ricerche, illustrandomi i dettagli di ogni oggetto o foto che ritrovo. Ma della macchina, nessuna traccia.

Trovo solo i suoi accessori, il triangolo d’emergenza in lamiera e la leggendaria cesta da tetto, protagonista delle scorribande in autostrada di cui sopra. È il mio chiodo fisso, scandaglio ogni angolino nella ricerca di un indizio che possa aiutarmi. Niente, né album fotografici né documenti della macchina riemergono, e anche rivedere tutti i VHS di quando ero piccolo si rivela un vicolo cieco.

Arriviamo a maggio, il lockdown è finito e si respira l’aria di un imminente ritorno alla normalità, faccio la spola tra casa mia e casa del nonno. Ormai scoraggiato dalle lunghe ricerche senz’esito, una mattina mi ritrovo in mano un ultimo album, e tra le foto, una ritrae la casa: il garage è aperto e in fondo è parcheggiata una macchina di cui si legge la targa, cifre bianche su sfondo nero. Riconosco le gemme posteriori e le cromature. Faccio un salto sulla sedia: È LA LANCIA!!!

Una breve ricerca in Internet mi consente di appurare che la macchina è ancora in circolazione. La targa corrisponde ad una Lancia Fulvia GT, 4 marce, prima serie, immatricolata a fine 1968. Una delle ultime Lancia realizzate prima dell’ingresso del marchio nella galassia Fiat. Era una gran bella macchina: potente, sicura, ed equipaggiata di tutto punto, dai freni a disco sulle quattro ruote alla trazione anteriore, passando per una dotazione di serie che lascia senza parole ancora oggi. Mancando all’epoca qualsiasi forma di aiuto elettronico, la sicurezza e la stabilità di un’automobile era nelle mani di chi ne studiava ciclistica e bilanciamento dei pesi.

Nell’immaginario dell’appassionato medio, il nome “Lancia” evoca ricordi legati al mondo dei rally, dalla Stratos di Munari rigorosamente di traverso, alla più recente Delta, al contrario incollata alla strada come fosse su binari. Pochi però si ricordano che Lancia era prima di tutto sicurezza, tecnologia, ricercatezza. La sportività c’era, ma ben celata per non risultare pacchiani. Una vera auto da gentiluomini, sobria nelle linee ma non povera d’aspetto. All’epoca il nonno non aveva badato a spese, tutto questo ben di Dio veniva a costare come una berlina di classe superiore.

Annuncio a mio nonno il ritrovamento, ormai è l’ultimo superstite della famiglia ad averla guidata ai tempi d’oro. Mi lascia intendere che è contento della notizia. La sera, per occupare il tempo, navigo nei soliti portali online di compravendita di auto. Passo in rassegna tutti gli annunci riguardanti una possibile Lancia di fine anni 60. Apro un annuncio che pare invitante: una Fulvia berlina, ben tenuta, dello stesso colore che ricordo. In una foto intravedo la targa.
È lei.

Avviso mio papà, mi sollecita di andarla a vedere. L’auto per fortuna è vicina, in qualche ora potrei andare a vederla. Mi basterebbe questo: vederla un’ultima volta, toccarla, finalmente. Sarebbe un sogno portarla a casa ma non so se sia la scelta giusta. Non ci dormo per qualche notte, penso a cosa sarebbe più giusto fare. Come sarà la macchina? Varrà la pena riportare a casa un auto venduta per sopraggiunto disinteresse? Saprò curarla come merita?

Mi presento dal venditore. La Fulvia mi appare da sotto un telo, lucida come la ricordavo. Le cose le sono andate bene durante questi anni, ha incontrato solo proprietari che l’hanno curata e apprezzata per come era e per le condizioni in cui si trovava. Ha fatto pochissima strada, poco più di 40 mila km in 50 anni. È sempre stata sottoposta a manutenzione. È conservata, conservatissima: possiede ancora trousse d’attrezzi
e libretto uso manutenzione originali, dettaglio di cui mio papà si ricordava. Ci giro attorno, vedo il suo posteriore che da bambino non avevo mai visto. La tocco, ora posso farlo finalmente. Da lontano ha un’aspetto piuttosto canonico e squadrato, ma è da vicino che si possono apprezzare i dettagli, gli smussi sulla carrozzeria, le nervature per dare movimento alla fiancata, gli accenni di pinne anteriori e posteriori ispirate alle auto americane anni ’50.

È un auto degna del marchio che porta e del periodo che rappresenta. È un riassunto dello stile e della tecnica anni 60. Un piccolo gioiello da usare, non da esibire. Più la guardo, più ne resto affascinato. Non sono d’accordo con chi ricorda la Lancia come “la Mercedes italiana”.
Qui “lusso” è solo l’ultimo degli aggettivi da usare. C’è una base tecnica degna di un marchio giapponese, la passione per la sicurezza degna di Volvo, la scuola italiana di vestire le automobili che si gioca il primato con quella inglese.

Mi trovo davanti alla Fulvia nel momento in cui viene accesa, un rombo allegro inizia a permeare il garage in cui riposa. Davanti a me si presentano i suoi quattro fari racchiusi da una calandra cromata, unico sobrio decoro del frontale. Tutto torna, è il ricordo che ne avevo da bambino: i fari anteriori gemellati, la sagoma squadrata, lo zio che l’accendeva, quel timbro allo scarico così particolare che tanto mi incuriosiva da piccolo.

Ho bisogno di un’ultima conferma, forse quella più importante per me. Mio papà prende il libretto di circolazione, lo apre e poi me lo porge facendomi l’occhiolino. Leggo le generalità di mio nonno come primo proprietario, nome e data di nascita coincidono. Ora non ci sono più dubbi. Ho un sussulto, trattengo a stento l’emozione e la mascherina imposta dalle normative anti-contagio mi è di aiuto. È lei, è proprio lei. È la Lancia dei nonni. È la macchina di famiglia.

Torno a casa in preda all’emozione. La macchina è sana e marciante, se ne potrebbe tornare a casa sulle sue ruote, questa era una delle mia principali prerogative per riportarla a casa. Sembrano esserci le condizioni perfette, la quadratura del cerchio. Non so se sia un segno del destino, ma vengo a sapere che stava per essere venduta in inverno, prima che la pandemia bloccasse la trattativa. Se ne sarebbe andata ancora più distante, sarebbe stato tutto molto più complicato. Che stesse aspettando proprio me, che mi svegliassi e mi decidessi a togliermi una volta per tutte questo tarlo che mi portavo appresso da così tanti anni? Mi riprometto di dormirci sopra, ma la ma è solo una misera maschera di pulcinella. Per tanti anni ho sognato di riuscire a trovarla, adesso che ci sono le condizioni non avrebbe senso fermarsi. Mi
mangerei il fegato per il rimorso di averla lasciata andare, questa volta forse per sempre.

Al mio risveglio annuncio alla famiglia le mie intenzioni. Parlo a quattr’occhi con nonno e genitori: c’è il placet per il rientro, fa piacere a tutti riavere la macchina in casa e la sua presenza non occuperà tanto spazio in garage. Raggiunto l’accordo per l’acquisto, il giorno stabilito mi presento al garage dove la Lancia si sta preparando per il ritorno a casa. È metà giugno e le previsioni incoraggianti di qualche giorno prima sono svanite nel nulla di fronte ad una grandinata che ci accoglie all’arrivo. Ma ormai l’accordo è preso, e aspetto la fine del temporale per
montarci per la prima volta, e portarla a casa.

Impugno la maniglia cromata e apro la portiera, pesante e sostanziosa come si usava all’epoca. Mi siedo sul sedile in pelle e mi ritrovo accolto in un’abitacolo ampio e luminoso, una sensazione ormai persa sulle auto moderne che scimmiottano linee da coupè per ingolosire  l’acquirente con presunte velleità sportive. Chiudo la porta e un sommesso “cloc” mi rammenta del fatto che le cerniere delle porte erano un vanto delle Lancia che furono. Le rifiniture sono da prima della classe, dove manca la pelle provvede una lucida bachelite nera a celare le
lamiere della scocca. L’ho vista andare via che non potevo neanche toccarla, e ora la riporto a casa guidandola di persona. Giro la chiave, poi la premo. Mio nonno me l’aveva anticipato, il blocchetto d’accensione era uno dei dettagli più caratteristici di questa macchina. Il motore prende vita e si assesta al minimo. La macchina è silenziosa, solo un rumore cupo e ovattato, ma cadenzato, proviene del motore. È il
famoso motore a 4 cilindri a V di scuola Lancia, che sulla Fulvia raggiunge il suo ultimo stadio evolutivo.

Al minimo non esistono vibrazioni, solo un leggero sussulto scuote la macchina ad ogni pressione sull’acceleratore. Il suono è inconfondibile, sembra quasi un bicilindrico. Afferro la lunga leva del cambio e innesto la prima, impugno il sottile volante nero e rilascio la frizione. Con un attimo di esitazione, la Fulvia si muove e dirige le ruote alla volta di casa, sotto un diluvio torrenziale. Papà mi fa strada con la sua auto, io lo seguo a debita distanza per prendere confidenza con i freni non servoassistiti e i comandi dell’auto. Nel mentre, spoglio con gli occhi il cruscotto e gli interni. Il cicalino delle frecce cambia frequenza in base alla velocità a cui viene innestata la freccia, rallentando di pari passo col regime di rotazione del motore. La leva stessa che le aziona è in acciaio, cromata, e silenziosissima, quasi a non voler disturbare il guidatore con inutili e fastidiosi rumori “di servizio”. Il tachimetro è a rullo e illuminato, per garantire una visibilità eccellente in ogni condizione. Sono dettagli che rendono più piacevole e sicura la marcia. Il motore è vispo ma educato, ha un’erogazione molto piena che rende la marcia in souplesse estremamente piacevole, basta schiacciare sull’acceleratore per prendere velocità e togliersi dagli impicci, se necessario. Sterzo e cambio mi ricordano che sono a bordo di una signora che ha mezzo secolo sul groppone: la leva è lunga, va usata con garbata decisione. È gradito il punta-tacco in scalata, soprattutto a motore freddo. Il volante è un’opera d’arte, sembra uscito da un salotto della Belle Epoque: nero, sottile, con due sole razze tondeggianti interrotte dal cerchio cromato che aziona il claxon. Ho quasi paura ad impugnarlo, per timore di rovinare un oggetto all’apparenza così esile. Al centro, risalta in bella vista lo stemma Lancia, che in realtà aziona gli abbaglianti.

Appena arrivato su strade a me più note, ormai vicino a casa, decido di saggiare le doti del baritono che sonnecchia sotto il cofano. Esco da una rotonda tenendo il motore gagliardo, sono in seconda piena e schiaccio l’acceleratore. La macchina prende giri rapidamente, a 3000 giri avviene la metamorfosi: da cupo e sornione, il timbro allo scarico diventa un ringhio allegro e inebriante. Sembra quasi che l’emozione alla
guida debba essere del solo guidatore Lancia, una sua esclusiva, della quale può godere solo violando i consigli del manuale di uso e manutenzione, ed addentrandosi in regimi di rotazione poco consoni ad una berlina da viaggio. Come uno 007, che con disinvoltura passa dalle serate di gala agli inseguimenti furibondi a bordo della sua Aston Martin, sempre vestendo il completo d’ordinanza.

Quello della Fulvia è proprio un ringhio, affilatissimo e grintoso. Non è il rombo Alfa Romeo, non è il ruggito imperioso delle sportive emiliane. E’ il ringhio Lancia, proviene dai suoi due carburatori doppio corpo impegnati a soddisfare la fame d’aria del propulsore, cupo ma percepibile ai bassi giri, sguaiato e provocante quando la lancetta del contagiri supera quota 3000. È l’unico rumore che penetra in abitacolo,
anche a velocità sostenute. Lo scarico al contrario è ben insonorizzato, come si addice ad una macchina di rappresentanza. L’avantreno è pesante e poco reattivo per la massa che si deve portare appresso, ma l’assetto piuttosto piatto contribuisce a mitigare il sottosterzo. Lo sterzo stesso è molto demoltiplicato, 4 giri di volante tra i due fine corsa, ma l’assenza di servoassistenze lo rende straordinariamente preciso, basta tenere un dito sul volante per viaggiare spediti e disinvolti anche a velocità autostradali. È una grande viaggiatrice, una granturismo, come suggerito dalla sigla sulla griglia anteriore. Ti lascia intuire che può anche correre forte in tutta sicurezza, ma solo se non ci sono alternative. L’erogazione del motore è lineare, mi viene da dire “pacata”, come se volesse prendere velocità senza fare baccano. Noblesse oblige. Ai corridori abituali è suggerito dirigersi verso altri modelli, dalla Fulvia coupè alle realizzazioni di Zagato. Insisto sull’acceleratore e il motore disinvolto porta fuori allegramente la Fulvia dalle rotonde. Seconda…terza… quarta. Mollo il gas, lascio calare i giri e rimetto la terza con un godurioso punta-tacco, agevolato dalla pedaliera posizionata ad hoc. Accelero di nuovo, mi godo la ripresa piena dai bassi e l’allungo grintoso.

Mi concedo una piccola passerella per le vie del paese, prima di arrivare a casa. La stessa che fece mio nonno quando la comprò in quell’ottobre 1968. La parcheggiò per una settimana di fila di fronte alla sua bottega, rigorosamente col cofano aperto, per sfoggiarla con amici e clienti. All’epoca era usanza comune, nei paesi di provincia l’acquisto di una nuova auto era un evento molto sentito e ogni nuova
arrivata doveva passare attraverso l’ispezione degli avventori di bar e botteghe della piazza per riceverne il giudizio e l’ambita approvazione. Illuminata dai lampioni, la Fulvia splende come un albero di Natale. Non tutte le fiabe sono destinate a restare nella nostra immaginazione.
Arrivo sul vialetto di casa. Mio papà accosta e mi fa cenno di passare. È lasciato alla Fulvia l’onore di entrare per prima. Accosto anch’io, scendo dalla macchina e guardo, nel buio della notte, la casa. Le luci sono accese, mio nonno è sveglio ad aspettarmi. Mi sale un brivido lungo la schiena: il cerchio si sta chiudendo. Sto coronando un sogno che coltivo da anni, in cui speravo da sempre: faccio fatica a rendermene conto. Ma dopo anni e anni ero ormai rassegnato al fatto che di quella macchina mi sarebbe rimasto nient’altro che un lontano ricordo d’infanzia, e qualche racconto di famiglia. Entro in giardino, saluto con due colpi di clacson. Tutti si affacciano alla finestra, incuriositi da questo clamore. Ormai ha smesso di piovere, tiro fuori la pelle di daino e inizio ad asciugare la macchina. Prendo i suoi accessori che ho trovato nel corso degli anni e li ripongo nel bagagliaio, è il gesto per me più simbolico di questa storia, ormai simile alla parabola del
figliol prodigo. Apro il garage e scopro che nel mentre il nonno ha fatto ordine, per far spazio alla macchina. È il modo per dimostrare il suo orgoglio. Quell’orgoglio enorme che gli anziani non esprimono a parole, ma che ti lasciano intendere. La sto parcheggiando mentre il nonno scende le scale. La rivede nello stesso posto dove era tenuta al coperto fino a 20 anni prima. Si avvicina e la guarda, la scruta, riconosce la sagoma familiare. Le primavere sono ormai più di 90, la vista non è più quella di una volta. Ma la testa è lucida e i ricordi anche. Gira attorno e allunga la mano, a tentoni accarezza il fregio che orna la fiancata. Se lo ricordava. Lo percorre dal frontale fino alla coda, come per sincerarsi che quella che ha davanti sia proprio “quella” macchina. “Guarda che bella che è”.
Questo è il suo unico commento.

Mi giro verso la macchina un’ultima volta prima di spegnere la luce e salire in casa. La fulvia è lì, dov’era, com’era. Destino o meno, adesso non ho più dubbi. Ho fatto la cosa giusta. Bentornata, Fulvia. Ci sei mancata.

di Pierluigi Cibin

Foto di Francesco Colantoni

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