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Lancia Beta Montecarlo: Una soffitta, una chiesa e un Riccardo Patrese

Non ci sono parole per descrivere la sensazione che si prova quando un’auto fa risuonare le tue corde, forse chi la progettò lo fece apposta. Non importa il tuo livello di maturità o la tua età, è come un tam tam tribale che comincia a farsi sentire da dentro, come la samba batucada, dove il primo percussionista chiama gli altri e li dirige incitandoli sempre più. Lei la vidi su una rivista all’età di dieci anni, era il 1994, lo ricordo ancora, era un pomeriggio di giugno.


Da ragazzino a volte ti portano in posti dove non vorresti, in mezzo a vecchi parenti appiccicosi, che non ti fa piacere frequentare. Evadi quindi dalla realtà inventandoti di fare le cose più stupide e magari un po’ proibite. Io, in uno di quei pomeriggi, scappai dalla noia parentale di quella cucina di montagna dirigendomi in giardino. Non trovando molto da fare se non strappare erbacce e tirare sassi, annoiato ancor più e deciso a volermela far passare, decisi di fare una cosa che mi era assolutamente vietata.

La casa era mezza diroccata, il piano superiore era disabitato e versava in condizioni pietose, i muri completamente scrostati, i controsoffitti fatti di calce e cannette crollati, giocattoli di latta arrugginiti lasciati sotto le macerie del tempo, i cavi elettrici in treccia e gli isolatori di ceramica di un era a me completamente sconosciuta… Decisi quindi di salire ed affrontare le mie paure, quella dell’ignoto e quella di prenderle da mio padre.


Una volta destreggiatomi tra i calcinacci e gli ostacoli, vedetti una scaletta in legno. Si vedeva che nessuno saliva per di là da anni, la polvere e le ragnatele erano ovunque. Salii ancor di più, sicuro che se mi fossi fatto male ci avrebbero messo delle ore a trovarmi, ero la preda, ero dentro la ragnatela ormai, non potevo più tornare indietro. Vidi dei curiosi pacchi chiusi con lo spago che mi attiravano, erano delle riviste impolveratissime, con la mano spostai la patina di polvere che sovrastava l’angolo in alto a sinistra, e vidi apparire una scritta magica.
In quell’istante ero come in uno stato di trance, non sapevo nulla di auto, ero un ragazzino, il nome della rivista mi aveva eccitato a tal punto da farmi sussultare immensamente. Era il proibito, quello che un bambino non poteva ancora toccare.


Era come vedere “Colpo grosso” alla televisione, non potevi toccare, era proibito, sapevi già, ma non eri ancora autorizzato a farlo, ti sentivi ingabbiato perché dentro te era tutto già chiaro e lampante ma l’età non te lo permetteva. Velocemente aprii il nodo cominciando a vedere incuriosito quelle figure pornografiche di auto da corsa che mostravano tutto, con i pannelli in fibra rimossi, queste enormi turbine, tutti quei radiatori ed improvvisamente il sogno di poterle domare e possedere, viscerale. Fino a che arrivò lei, la data di quella rivista si era fermata al marzo 1980.

Lei era lì in copertina come una pin-up e il titolo campeggiava “PATRESE asso LANCIAto“. Non sapevo che auto era, tantomeno chi era quel Patrese, ma mi innamorai, era scritto nel DNA, quando una cosa la senti tua è tua, quel muso orribile ed incazzato, quegli spoiler ignoranti e prepotenti che hanno bisogno di un tirante per rimanere attaccati, quello stemma che per me all’epoca non significava molto, bianco su sfondo rosso che prendeva quasi tutto il cofano zebrato, LANCIA.


Capii subito che non era la Delta dello zio, capii che veniva da un’epoca diversa, così vicina e così distante. Capii che un’auto così non l’avevo mai vista. Lei era la Beta Montecarlo Turbo, un mostro, in tutti i sensi, una figlia malvoluta, maltrattata, di una madre (Fiat) che l’aveva rinnegata ed affidata ad una famiglia adottiva (Lancia) che sembrava si volesse far estinguere. Ma i purosangue corrono, corrono rischi, si dimenano e sono indomabili, non si fanno ammazzare ti calciano in bocca. E questo fu l’inizio della mia storia assieme a questa berlinetta, anche se solo in versione stradale.

Lessi attentamente tutto, per quello che potevo comprendere, e mi misi con foga a cercare altre riviste che la ritraevano, le trovai soddisfatto, avevo il vestito sporco di polvere secolare, le mani nere, il viso a strisce che nemmeno gli All Blacks, erano passate già delle mezz’ore in fretta, troppo, sentivo la pressione aumentare ma non volevo muovermi, in preda ad un attacco cleptomane dovevo prendere tutto quello che potevo.

Alla fine sentii un vento caldo vicino alle guance, era la delicata mano di mio padre che mi dava un ceffone ben assestato. Non era per la pornografia da me scoperta ma per il mio allontanamento indisciplinato. Gli dissi che poteva anche menarmi ma io da lì non me ne sarei andato senza quelle riviste, mi fece capire che era meglio se ce ne fossimo andati in fretta, e per farmi stare buono prese su le riviste che avevo messo da parte e con uno degli spaghi lì per terra le legò come avrebbe fatto con le spugne di una composizione floreale.
Salutammo, i parenti dissero che sembravo un panda, mi regalarono quelle riviste, dicendo che non sapevano neppure che c’erano e di chi fossero, dato che quella casa anni prima era stata abitata da altre famiglie.

 

Il nome “Montecarlo” in me evocava dei sogni esotici od erotici, dipendentemente dal punto di vista, ne parlavo continuamente tanto che mio zio Paolo nel 1997 mi regalò il gioco Grand Prix 2 della Microprose. Quest’uomo alimentò in me oltremodo la passione per i motori, lui abitava sopra una concessionaria molto rinomata a Padova, Scarabel, e ricordo quando le domeniche andavamo a trovarlo, sotto casa sua c’erano le Porsche 911 nuove fiammanti, lui era il custode ed aveva le chiavi di tutto, mi portava dentro lo showroom e mi ci faceva salire sopra, mi regalava le brochure delle 911, con le mazzette colori verniciate ed i campioni di tessuto, ricordo ancora la sensazione della pelle sulle mani.

Ogni volta che entravo in quei capannoni ero sempre più eccitato e a rischio overdose, poi nei periodi in cui non lo vedevo le crisi di astinenza da quel mondo si facevano sentire sempre più prepotenti, avevo solo 13 anni e non capivo cosa mi succedeva. Passavano gli anni e l’inverno era un periodo noioso, soprattutto in una Padova di fine anni ’90. A maggior ragione quando ti trovi una madre chiesarola, sei costretto a fare continuamente cose che non vuoi, tipo andare a messa la domenica in centro. Quella volta ci andai controvoglia e tornai che ero a due metri da terra, no, non ho visto la madonna.


Mia madre sentiva sempre che io nominavo questo Riccardo Patrese e, sapendo che ero disposto a tutto per conoscerlo, mi tese una trappola. Come una falena attratta dalla luce, ci cascai. Mi disse che lui frequentava spesso una chiesa in centro a Padova che, fatalità, era quella dove mia madre sporadicamente andava a cantare alle messe della domenica.

Dovetti frequentare quelle noiosissime situazioni per mesi, nella speranza di incontrarlo, quando ormai deluso non volevo più andare mia madre mi disse, che se anche questa volta non lo incontravo potevo decidere di non andare più. Detto fatto, a fine messa Riccardo c’era eccome se c’era, con la sua bellissima moglie. Il monsignore si soffermò a parlare con lui e poi mi fece cenno con la mano di avvicinarmi. Ero emozionatissimo, avevo gli occhi gonfi dalla gioia, ero talmente agitato che tutto quello che tenevo dentro me si accese tutto di un tratto, diavolo di madre.

Avevo un mix di emozione, paura e profondo rispetto, non riuscii a fare domande, ero in imbarazzo, gli dissi che lo ammiravo molto ed ammiravo soprattutto i suoi risultati con la Montecarlo, poi l’emozione mi ammutolì completamente, penso che si sia chiesto “ma ‘sto ragazzino come cazzo fa a sapere delle mie gare di 20 anni fà che non era neppure nato”? Mi ha salutato cordialmente, penso prendendomi per un ragazzino con gravi problemi di mitomania.

Ero in estasi, quell’auto allora era veramente esistita, dovevo averla, costasse tutto. Ne trovai una in versione “civile”, per sbaglio, ero in macchina con mia madre eravamo in circonvallazione esterna, vicino agli ospedali, lì vidi per la prima volta quella che sarebbe poi diventata la mia lei, una Lancia Montecarlo S2 Coupè nera. Ero come in un mondo parallelo non c’erano rumori, persone, auto, madri, freddo, umido, solo lei, quello che pensai fu “Un giorno tu sarai mia, costi quel che costi”.

Ne passarono di anni, arrivai ai 20 che la patente ormai la avevo presa da un bel po’. Nel frattempo la mia passione per i motori era maturata e stava esplodendo con tutta la violenza del caso. Per inseguire la passione e soprattutto per potermi comprare un mezzo andai a lavorare in un’officina meccanica, all’epoca ero pluri-ripetente all’Itis, e seguivo le lezioni serali, la mattina in officina e la sera tra i banchi di scuola. All’epoca ero riuscito a comprarmi, non senza pochi sacrifici, una meravigliosa Honda Civic EG del 1992 rossa, per me era veramente il top, assetto, cerchi, gomme Advan fuorilegge. Meravigliosa.

Ma continuavo a sentire la sua mancanza, era lei che si faceva sentire, la Montecarlo, pensai tra me e me che era passato troppo tempo e che probabilmente lei fosse andata con qualcun’altro, come avevo fatto io ai 18 anni, ma preso dal pensiero sempre più insistente andai a cercarla, e la trovai lì, come se il tempo non fosse mai passato, che mi stava aspettando, un po’ acciaccata dalla malcuranza e dagli anni. Un sussulto al cuore, una foto rubata con una compatta a pellicola, un tarlo sempre più forte. Erano le prime edizioni di auto e moto d’epoca in fiera a Padova, una bolgia di gente che si affacciava al mondo delle storiche, andai per curiosità, e ad ogni passo con cui avanzavo tra la folla aumentava anche il mio stato di ansia nel pensare che qualcuno potesse portarmela via.

Non doveva accadere per nessuna ragione, in preda ad un mix di panico e apprensione uscii immediatamente dalla fiera, vedevo nero, avevo i paraocchi come i cavalli, mi fiondai al primo bancomat e prosciugai il conto corrente, potevo prelevare 250€ e ne avevo a malapena 239, lo feci. Andai dal rivenditore, lei era lì fedele ad aspettarmi, il rivenditore mi disse che dopo tanti anni quella mattina un tizio tedesco era andato a vederla ma non gli aveva fatto ancora nessuna offerta e che se la volevo ed ero seriamente intenzionato ero ancora in tempo, non so se fosse un trucchetto o meno, fattosta che gli chiesi se con quel modesto anticipo poteva tenermela da parte. Le cose a volte vengono dalla pancia, e non da un ragionamento ponderato, è irrazzionale, imprevedibile, folle.

Me la tenne, io squattrinato com’ero dovevo mettere assieme l’intera cifra in tempi celeri. Andai in banca per un prestito e mi umiliarono, dicendomi che il mio stipendio era sotto la soglia di povertà, ovviamente mi negarono il prestito.
Non mi arresi, misi in vendita tutto quello che con sacrifici avevo comprato, la consolle, lo stereo di casa, il PC, i cerchi e le gomme della Civic, lo stereo della macchina, il portatile, la mia moto, e mi trovai un secondo lavoro dalle 6:00 alle 9:00 della mattina, prima di cominciare la giornata in officina. Portavo i bambini a scuola con il ducato 9 posti… ce la feci. Mio padre seppur contrario mi dette un piccolo aiuto ed io gli restituii fino all’ultimo centesimo. Quel Natale me lo ricorderò per sempre, era mia, nel mio garage, scesi e la guardai come fosse l’unica, in quell’istante capii che tutto ciò che avevo vissuto e fatto era in funzione di quel momento, di quel secondo, di quello sguardo in cui una cosa viscerale era diventa realtà.

di Enrico Munaron

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